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Oggi vi racconto perché, ad un certo punto della mia vita, decisi di partire per la Russia.
La prima volta che approdai in Russia lo feci per un motivo ben preciso: ammetto che a spingermi verso la terra di Tolstoj non fu la curiosità del viaggiatore, bensì l’ansia. Avevo appena concluso il mio primo anno di specialistica a Ca’ Foscari e il mio russo, ad essere sinceri, era pessimo. Il fatto di aver trascorso di recente un periodo di studio in Irlanda senza averlo potuto praticare mi aveva fortemente penalizzato e, nonostante la Laurea Triennale presa a Urbino con il massimo dei voti, mi sentivo molto indietro nella dimestichezza della lingua rispetto ai miei compagni di corso. Come se non bastasse, quell’anno a Ca’ Foscari c’era un’insegnante madrelingua di cui non farò il nome che amava accanirsi con gli studenti in difficoltà. Essendo profondamente innamorata della sua lingua d’origine, questa professoressa arrivava ad umiliare i poveri ragazzi che osavano maltrattare il russo con errori di grammatica. Probabilmente il suo era un modo per spronarci a fare meglio, ma con me non funzionò: oltre ad avere carenze linguistiche, cominciai a saltare le lezioni con quella professoressa di proposito, andando a peggiorare ulteriormente la situazione.

Non furono mesi facili.
Certo, forse non sono questi i problemi della vita ma vi assicuro che al tempo stavo accusando parecchio il colpo. Mi ero appena trasferita a Venezia e avevo iniziato le lezioni della specialistica prima ancora di laurearmi in triennale a Urbino (grazie alla diacronia del magico mondo delle Università italiane, che decidono autonomamente quando organizzare sessioni e esami senza un piano condiviso tra loro). Dopo parecchi mesi di vortice impazzito in cui scrivevo la tesi, organizzavo il trasferimento da Pesaro a Venezia, mi ambientavo in una città sconosciuta e frequentavo le lezioni con compagni e insegnanti nuovi, ero convinta che dopo quella laurea del 12 novembre sarebbe andato tutto in discesa. E invece, con l’alloro in testa e una stanchezza accumulata in tutti i mesi precedenti, mi scoprii come una bambina al primo giorno di scuola in una classe in cui mi sentivo totalmente inadeguata, una professoressa di stile dittatoriale e la motivazione sotto terra.

Ciliegina sulla torta, solamente dopo la mia iscrizione a Venezia venne fuori che avevo dei problemi con i crediti (parte II del magico mondo delle Università italiane che applicano un diverso sistema di conteggio crediti a loro piacimento). In pratica, la mia iscrizione alla specialistica risultava temporaneamente sospesa fino al febbraio successivo, tempo entro il quale avrei dovuto recuperare 10 crediti con un esame di letteratura russa del Novecento, argomento di cui non sapevo assolutamente nulla e che avrei dato a scatola chiusa senza neanche frequentare le lezioni. Se non avessi passato quell’esame, avrei perso un anno di Università. Insomma potete immaginare lo stato mentale in cui fluttuavo, alternando momenti di stress acuto a pianti inconsolabili, buttandomi inevitabilmente sugli spritz veneziani.

Burnout.
Ebbi un periodo di quella che oggi viene chiamata fase di “burnout”: in breve, avevo tirato troppo la corda e ora la batteria era completamente a zero. Da novembre a gennaio non frequentai praticamente lezioni. Non so se vi è mai capitato di perdere il significato di quello che state facendo. Avevo lasciato la mia città, la squadra di pallavolo e i miei amici per cosa, esattamente? Quelle domande, che avevo ignorato nei mesi precedenti, si erano ripresentate tutte assieme alla porta senza essere invitate e io non avevo risposte adatte. A due settimane dall’esame spartiacque tra me e l’iscrizione alla specialistica concentrai le poche energie rimaste, studiai i libri di testo assegnati e mi presentai all’esame. Al primo quesito feci scena muta. La professoressa, che sarebbe poi diventata la mia insegnante di letteratura russa l’anno successivo, mi propose con un tono serafico e calmo di ritentare la volta dopo… peccato che io non avessi più tempo a disposizione. La pregai, quasi scongiurandola e vicina alle lacrime, di darmi un’altra opportunità. Vedendomi in quello stato, la prof decise che non mi avrebbe voluta sulla coscienza e accettò di continuare l’esame. Tutti i santi russi quel giorno dovettero ascoltare le mie preghiere perché risposi perfettamente alle 5 domande successive. Nessun 30 e lode è più riuscito ad eguagliare la soddisfazione di quel 26 svolazzante sul mio libretto cartaceo in Letteratura Russa del Novecento, il voto più sofferto che io abbia mai preso in tutta la mia carriera universitaria.

Se potessi tornare indietro, mi concederei un periodo sabbatico tra il corso della triennale e quello della specialistica.
All’epoca ero dilaniata dal senso del dovere e da una disciplina ferrea che avevo allenato assieme ai palleggi sul campo. Non mi sarei mai perdonata il fatto di prendere decisioni sbagliate, deludere i miei genitori o perdere un anno universitario. Ero immersa in quel famoso tragitto prestabilito di cui ogni tanto mi sentite parlare e che, ne sono sicura, tutti voi conoscete benissimo (ne ho parlato anche in questo articolo). Come si faccia a evitarlo, non lo so. Però, ormai da tempo, mi chiedo se veramente abbia senso il modo in cui stiamo vivendo la nostra vita, dove chi chiede aiuto è considerato un debole e chi rallenta per gustarsi il percorso è solo qualcuno da eliminare dal sistema. Io, ragazzi miei, non voglio essere un pezzo dell’ingranaggio. Come direbbe la mia amica artista Giulia (se non lo avete ancora esplorato, qui trovate il link al suo meraviglioso blog), sto provando a togliere la maschera e scoprire se quello che c’è sotto mi piace, a prescindere da quello che guadagno o dal lavoro che faccio. Sto cercando di allentare la presa e rallentare il passo: alcune volte mi riesce, altre no. In tutto questo, nel percorso alla ricerca del Senso più profondo, si scopre di non poter controllare tutto: spesso la Vita gioca a dadi e fa uscire dei numeri casuali che tu proprio non potevi prevedere. E allora hai solo una scelta: devi accettare di giocare con il Destino e la Casualità, stringere la mano all’Improvvisazione e tirare i dadi ancora più forte.

Come tutto nella vita, anche i periodi neri finiscono: dopo quel fatidico esame, finalmente ristabilii il mio status crediti, mi iscrissi ufficialmente alla specialistica e ricominciai ad andare a lezione (e a riprendere gli insulti dalla tiranna). Il primo anno di specialistica terminò in un baleno e io non diedi il famigerato esame di Lingua Russa I. Infatti, nonostante i miei sforzi, non ero riuscita a mettermi in pari. Mi ci voleva una vera svolta. Fu allora che, senza ragionarci troppo come mio solito, mi iscrissi ad un corso estivo in una scuola per stranieri a San Pietroburgo.

Foto di Georg Adler da Pixabay

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